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TotemBlueArt

TotemBlueArt è il nome della rivista con cui collaboro.
Qui troverete alcuni dei pezzi che ho scritto o loro rielaborazioni. Sono di genere noir.




Il falansterio




Il sole riverbera sui bicchieri di vetro incolore impreziosito di filamenti color rubino e i suoi raggi di differenti sfumature dorate si rincorrono giocando fra caraffe d'acqua, calici di liquore e bottiglie di vino.

Per questo pranzo ho ripristinato il servizio alla francese. L'ho sempre preferito rispetto all'ultima strana moda russa in cui le portate sfilano una alla volta nel momento preciso in cui si devono mangiare; così facendo i commensali non possono servirsi secondo i propri gusti e delle quantità che ritengono soddisfacenti, ma devono attendere con la pazienza di un condannato, l'attimo di requie in cui si presenterà una pietanza a loro gradita. Al contrario, servire alla francese è il vero bon ton: sulla tavola saranno disposte tutte le portate, così che gli ospiti possano deliziarsi con quanto più li aggrada.
L'acqua odorifera per lavare le mani è già pronta negli acquamanili, gli scaldavivande preservano i piatti caldi; le porcellane presentano una linea pulita, il bianco candido appena modellato da eleganti rilievi e venature. Unica deroga a questa essenzialità, la zuppiera con le facce deformi al posto dei manici. Il gusto moderno per il grottesco mi permette infatti una sottile auto-celebrazione dei miei scritti.
Il banchetto è a festeggiamento del primo anniversario della mia opera più importante, i cui pregi sono stati riconosciuti anche dalla critica più spietata. Apprezzamenti ne avevo ricevuti e non pochi, in anni precedenti; affiancare però un avvenimento sensazionale a una storia ben composta permette di catalizzare l'attenzione di scribacchini che, a causa della loro mediocrità unita tuttavia alle giuste amicizie, si sono trasformati in giudici del buono stile.
Della disgrazia non ne ha più memoria nessuno, se non attraverso il mio romanzo che alimenta tutt'ora il pellegrinaggio in rue du Chatouillon, quasi fosse un luogo di culto. La proprietà, che ho rilevato poco dopo i funesti accadimenti per pochi franchi, si può visitare pagando un modico biglietto d'ingresso. Il guardiano che fa da guida non si è mai permesso di chiedermi uno stipendio: mi è grato per l'ospitalità nella stanzetta che fungeva da studiolo di ritiro e per il permesso di coltivare l'unico lembo di terra fertile, seppure restia a farsi dissodare.
A volte penso di tornare in quei luoghi dove l'idea è nata, per una visita fugace alle tombe di Albert, Henri e Berthold, figure moleste dalle risa sguaiate. Fu Berthold, il più entusiasta avendo conosciuto di persona il filosofo Charles Fourier1 a voler metterne in pratica il pensiero. Non fece molto altro, se non spronare noi del gruppo a organizzare concretamente la collettività. Albert era proprietario di una casetta fatiscente su pochi acri di terreno che, grazie ai corregionali di Henri, qualche cassa di vino scadente e la mia supervisione fu presto resa abitabile: la cucina per i pasti in comune, un'ampia sala per le attività e quattro anguste stanze da letto con un mobilio monacale, bastanti a noi che non avevamo famiglia. In futuro, ne eravamo certi, il nostro esiguo gruppo si sarebbe ampliato insieme a quell'abbozzo di falansterio, come era stata battezzata dal noto pensatore la costruzione che avrebbe accolto la comunità ideale e giusta, priva di governo in quanto diretta da persone sagge, capaci di sviluppare le naturali inclinazioni di ognuno dei suoi membri. Quello che mi attirava era la promulgata parità di diritti fra uomo e donna: lì sarei stata riconosciuta in quanto essere razionale e pensante!
Fu interessante all'inizio: le discussioni davanti al tavolo di colazione e la sera in salone, erano ricche di spunti. Ma mi resi presto conto che non eravamo adatti al lavoro di braccia. Il terreno attorno alla casa avrebbe dovuto fornire la gran parte del nostro cibo. Però, a parte il minuscolo orto di cui mi piaceva occuparmi e un melo che cresceva spontaneamente, non avevamo cognizioni di agricoltura e la faticosa cura che richiedeva il campo lasciava a fine giornata privi di energia ed estro creativo. Con la scusa di una lieve infermità assunsi un bracciante, sufficiente per il misero appezzamento. Feci inoltre riparare la casupola in pietra, un tempo rimessa per gli attrezzi, trasformandola nel mio studio, angolo modesto quanto quieto in cui ritirarmi a scrivere quando non andavo in giro per la campagna a raccogliere l'esperienza della povera gente, trasfigurandola poi nei miei racconti.
Albert, Berthold ed Henri, disinteressati – nonché incapaci – alla conduzione del falansterio trascorrevano il loro tempo, con una degna combriccola, in vane arringhe politiche. I pochi saggi da loro prodotti, vergati in uno stile dotto privo di mordente, erano adatti alla ristretta cerchia di studiosi saccenti, privi di sapere da donare agli altri. A distanza di pochi mesi dalla costituzione della falange, le uniche opere che vendevano e che ci permettevano di tirare avanti erano le mie. Mio malgrado sotto pseudonimo maschile: René Lenard. Il cognome era rimasto lo stesso, al nome avevo tolto la femminile e finale, cullandomi nella consapevolezza che la pronuncia sarebbe stata corretta e che la differenza di genere in francese – per lo meno nella lingua – si riduceva spesso a una mera questione di grafia.
Nonostante i riconoscimenti esterni, ero tuttavia costretta a subire l'invidia degli inetti compari che, piccati dall'essere mantenuti non solo da una donna, ma addirittura attraverso i suoi scritti, facevano di ogni occasione un pretesto per sgradite frecciate, insistendo, con sterile fantasia, sullo stesso punto: gli indegni soggetti popolari che prediligevo. La vividezza delle storie toccava i nervi sensibili di questi nuovi piccoli borghesi con arie da artista, nel tentativo di scrollarsi di dosso le loro umili origini, nel desiderio tenuto represso di fasti nobiliari.
Io, da parte mia, mi allontanavo da loro sempre più spesso, mentre il fiume vicino, con il suo scorrere irruente, a volte furioso, che inizialmente mi aveva spaventata, ora mi attraeva: vedevo in quei flutti irrequieti l'incitamento alla rivincita. Un pomeriggio, dopo quasi una settimana di piogge, pregai i tre di trasferirsi per un periodo in città, ché uno straripamento era sicuro. Io sarei andata dall'editore e non sarei rientrata prima di un paio di giorni. Allontanandomi non feci caso alle frasi di scherno: per loro ero timorosa di un ruscelletto!
Quella sera stessa il ruscelletto esondò con una forza tale da trasportare con sé gran parte della struttura del falansterio e tutti i suoi occupanti. Rimasero in piedi pochi resti.
Apparentemente sconvolta dalla tragedia, mi estraniai, rifiutandomi di vedere chiunque: dovevo portare a compimento senza indugi l'avvincente racconto della costituzione della nostra associazione, dalla semplice idea al suo concretizzarsi pur fra mille difficoltà, superate con il sacrificio e l'avvedutezza di tutti i suoi adepti – tra cui risaltava la compostezza della componente femminile – fino al raggiungimento dell'armonia generata dalla comunanza di intenti artistici. Da tempo vi stavo lavorando. Lo scioglimento della comune era per me scontato: non avevo nessun profitto, solo oneri; serviva però una conclusione adeguata ai compassati lettori. Ed ecco la natura, a volte pietosa nonostante l'apparenza infausta, venirmi incontro! Una volta avvertiti i miei “cari amici” – conscia che non mi avrebbero dato retta – avevo la coscienza tranquilla. Uscii dal convento in cui avevo trovato asilo, solo per partecipare al loro squallido funerale – definito successivamente “frugale e semplice” – finanziato da me per evitare l'umiliazione della fossa comune. Un finale egregio! I direttori dei fogli più prestigiosi, tenuti a digiuno di notizie di prima mano sull'incidente del falansterio, si gettarono come tante cavallette sulle stampe del mio libro, già conteso dai maggiori editori del Paese.
A un anno di distanza il mio successo è completo. I raggi di sole si rincorrono giocando fra i calici dai filamenti color rubino e i lunghi specchi nella maestosa sala da pranzo dai broccati azzurro argentati. L'acqua odorifera è pronta negli acquamanili, gli scaldavivande preservano i piatti caldi; i “bianchi” di porcellana sono eleganti pezzi d'arte, simboli di fasti nobiliari.
I disastri testimoniano la caducità dell'uomo, come ha detto Don Abbaye nella sua bella omelia funebre. Al tempo stesso però, mettono in risalto la capacità di altri uomini di sopravvivere. O, in questo caso, la capacità delle donne di adattarsi in un ambiente ostile.

1 Filosofo francese (1772 – 1837) di pensiero progressista (sulla scia dell'illuminismo e delle idee di Rousseau) sopratutto nel considerare la parità fra uomo e donna e nella concezione di un sistema pedagogico che favorisca lo sviluppo libero e creativo dei bambini. Fu di ispirazione alla nascita di varie comunità, chiamate da lui “falangi” la cui vita si svolgeva nel “falansterio”.







Un muro un cimitero


- PRIMA PARTE -
Berlino Est
Agosto 1961 - Il governo è preoccupato. Molti cittadini, sempre più spesso, partono in cerca di quello che chiamano 'futuro migliore'. Non vedono che gli alti funzionari si preoccupano per loro. A nessuno manca nulla. La vita è senza pensieri, l'esistenza assistita. Miopi, privi di potenzialità utili alla crescita dello Stato, se ne vanno.
Fuggono.
Tradiscono.
Se ne contano già oltre due milioni dalla sconfitta di Hitler.
Perciò è deciso. Non siamo in molti a saperlo. La questione è delicata e la pianificazione necessita della massima cura.
Per il momento ci si è limitati a sbarrare le porte delle case che danno sulla Bernauerstrasse, proprio al confine con l'ovest. E a murare le finestre dei primi piani, sfrattando gli inquilini.

Settembre 1961 - La situazione è critica. Nelle case al confine la gente si affaccia per comunicare con gli 'amici' dell'ovest e alcuni addirittura si buttano sperando di atterrare al di là della frontiera. Si è stati costretti a murare tutto, fino in cima. E sul tetto è stato posto del filo spinato. Non è bastato. Ida, nel salto, è morta. Non è mai stata un'aquila. E' urgente che il piano venga attuato.




- SECONDA PARTE -
Ottobre 1961 - Ha funzionato! Tutti gli abitanti della zona sono stati traslocati a sorpresa. Si è provveduto a una nuova sistemazione; per il meglio, come al solito. Anche la famiglia S., che aveva una drogheria dall'altra parte della strada è partita. Assurdo tenere un negozio nel distretto occidentale! Questi commerci andavano smantellati, è evidente. Gli edifici della Bernauerstrasse sono già stati rasi al suolo e i primi blocchi del Schutzwall, la barriera di protezione antifascista, sono stati posati1. E' uno spettacolo vedere la fila di soldati dei Kampfgruppen: affiancati l'uno all'altro a distanza di poco piu' di un metro, segnano con i loro corpi eretti e fieri la linea dove sorgerà il muro. Sarà lungo oltre centocinquanta chilometri!
Uno dei nostri ministri ha affermato che resisterà oltre cento anni.
Giugno 1962 - Non è ancora trascorso un anno dall'innalzamento della frontiera di protezione, che ancora dei pazzi tentano di fuggire. Che pessimo esempio per i bambini! Due giovinetti di dieci e tredici anni hanno tentato di raggiungere loro padre strisciando dentro una tubazione che passa il confine. Sigfried, capo del turno di guardia e grande amico di mio marito, ha sparato, subito imitato dal suo compagno. Parecchi proiettili hanno colpito la testa del più piccolo, morto quasi all'istante, mentre il più grandicello è spirato dopo alcune ore a causa delle ferite. Il Ministero per la sicurezza dello Stato li ha fatti cremare e, saggiamente, ha raccontato ai genitori che uno è morto annegato e l'altro folgorato. La verità è diventata pericolosa a causa dei nemici della Patria che la distorcerebbero per la loro propaganda. C'è l'ordine di non sparare ai bambini, ma di chi è la colpa se non del padre di quei poveri disgraziati: vivere in occidente, affidando alla nonna anziana i propri figli! Una vergogna! Ma sconterà le sue malefatte con il rimorso per la vita!
Sigfried e l'altro soldato invece hanno ricevuto una medaglia. Il comandante delle truppe del popolo li ha invitati a uno dei suoi ricevimenti e in quell'occasione li ha portati a modello contro la lotta ai fuggitivi. Com'erano belli nelle loro uniformi!2Ora stanno erigendo un secondo muro interno per aumentare la nostra sicurezza.
1 La posa dei primi blocchi iniziò il 15/8/1961
2 Joerg Hartmann (10 anni) e Lothar Schleusener (13 anni) erano due amici che tentarono di raggiungere il padre di Joerg strisciando in tubo che passava sotto le fortificazioni. Sette anni dopo la fine della DDR, Sigfried venne condannato a venti mesi con la condizionale, mentre l'altro soldato era già deceduto.


- TERZA PARTE -
Agosto 1964 - Le cose peggiorano. Ogni giorno qualcuno tenta la fuga. Altri, credendosi piu' furbi, distruggono i propri documenti, facendosi arrestare: l'ovest è disposto a pagare per far espatriare questi delinquenti che battezza poi come 'prigionieri politici del regime comunista'.
Al contrario, la maggior parte di noi apprezza la stabilità e non lascerebbe mai la famiglia e tutti gli amici. Per cosa poi? Il miraggio dell'oro? Non ci manca nulla. Lo sanno bene quelli che si sono trovati loro malgrado su quel treno fatto deragliare oltre frontiera da degli scriteriati, che hanno approfittato dei lavori sui binari. Appena questi ignari si sono resi conto di quanto era successo, sono tornati in fretta dalla parte giusta. I nostri funzionari non sono senza cuore e gli hanno permesso di riabbracciare i loro figli 1.
Sfortunatamente gli squilibrati, se non si fermano, producono in poco tempo danni incalcolabili. Ne siamo nostro malgrado circondati! Gli insospettabili sono quelli da cui guardarsi con maggior attenzione. Ieri mi è sparito l'annaffiatoio. Non era certo bello, ma assolveva la sua funzione ed era quello di mia madre. Secondo me è stata Gretchen, l'invidia malcelata da una calcolata timidezza.

3 Ottobre 1964 - Un paio di notti ancora e tutto questo finirà. Non so piu' da chi guardarmi. Non posso parlarne a mio marito. Sopratutto a lui. Mi mancherà. Forse. Per il resto sento di non aver piu' nessun legame. Chi è amico e chi finge? Non lo sopporto. Dall'altra parte, almeno, saprò.

1 Questa fuga su una locomotiva a vapore con piu' vagoni è in realtà avvenuta il 5/12/1961




- QUARTA PARTE -
5 Ottobre 1964 - Mi costringo a fissare il suolo, mentre il foulard che ho stretto attorno al capo impedisce allo sguardo di spiare i volti degli altri fuggitivi. Non voglio mi riconoscano. Il silenzio è totale, rotto solo dai passi e dalle risate delle guardie di frontiera. Mio marito è poco lontano, con loro. E' di turno stasera, altrimenti non sarei potuta essere qui. Avrà problemi per questo, ma se la caverà; spero.
Attendo in disparte il mio turno. Ancora una volta il secchio, in grado di contenere un adulto, viene calato e qualcuno comincia la traversata del tunnel. Siamo parecchi; il freddo inizia a penetrare le ossa ma nessuno osa muoversi. La zona è illuminata a giorno: nel contrasto con il resto della città ho sempre pensato che da qui provenisse la luce di saggezza del nostro governo. Stasera al contrario ho la sensazione che le tenebre in cui sto rifugiata siano create da questa luminescenza.
La carrucola intanto continua il monotono su e giù. Ho perso il conto delle famiglie che sono passate. Sono dei traditori diversi questi: scappano assieme alle loro mogli e ai figli. Ci sono anche dei nonni. Non sono del tutto instabili allora...
Un clangore mi risveglia: qualcosa è andato storto e l'ancoraggio delle rotelle non ha retto. La quiete è rotta. In un attimo ci sono addosso. Sento gli spari vicini, mentre mi ritraggo in un angolo buio. Anche noi stiamo sparando?
Incontro gli occhi di mio marito. L'esitazione che lo arresta mi fa scattare verso il cavo che penzola sull'entrata del tunnel. Aprono il fuoco contro di me. Mio marito si accascia; in avanti.
Le mie mani si muovono automatiche, aggrappandosi ritmicamente al metallo. I piedi nel vuoto cercano disperatamente il terreno. Dodici metri. Interminabili. Impaziente, gli ultimi li copro con un balzo. Sono a terra, ma poco importa; il passaggio non è abbastanza largo perché un adulto possa stare in piedi. Comincio a strisciare cercando la via con le mani. Il buio è totale così mi concentro sui rumori di fronte a me. Non posso pensare a cosa sta succedendo a est. E a quello che è già successo. Comincio a tossire per l'aria spessa. Gli occhi, spalancati nella speranza di scorgere la fine della galleria, mi bruciano. Le calze spesse si lacerano sul pietrisco, mentre le suole delle scarpe scivolano per l'umidità facendomi perdere l'equilibrio. Finalmente sento l'inclinazione del suolo verso l'alto: una ventina di metri ancora. Sento già di avercela fatta! Trovo un ostacolo; raccolgo tutte le mie energie, afferrandolo per scavalcarlo. E' un bambino; avanziamo assieme a spintoni e, quando ormai l'ho superato, lo sento lamentarsi. Mi trattiene per le caviglie. Mi giro allungandomi verso di lui per sganciargli la presa quando dietro di me due braccia mi afferrano, trasportando entrambi in una stanza riscaldata. Delle voci preoccupate ci circondano. Qualcuno mi avvolge in una coperta, un altro mi passa un panno umido sul viso incitandomi a sorseggiare il tè che, non so come, tengo tra le mani.
Sono fuggita dal mio Paese.
Non ho piu' nessuno ora. Sono vedova.1

1 Durante gli anni del muro vennero scavati molti tunnel. Questi vengono numerati in base al numero di persone che sono riuscite ad attraversarli, raggiungendo indenni l'occidente. Qui si tratta del 'Tunnel 57'



- QUINTA PARTE -
Berlino ovest
Novembre 1989 - 'Il muro è caduto' titolano i giornali. In realtà è ancora lì. Solo che i permessi per venire all'ovest non saranno piu' negati. A questo annuncio la gente dall'est ha scavalcato il muro interno, sbarazzandosi del filo spinato e passando indenne torri di guardia e barriere anticarro fino a scalare la muraglia antifascista.
Gli occidentali sono andati a dargli il benvenuto e ora una moltitudine di sconosciuti si abbraccia e festeggia.
Ma per me non avrà conseguenze. Solo dei clienti in più da servire.
Sono sempre stata una buona cuoca. Con il nulla che avevamo a disposizione nella Repubblica Democratica Tedesca riuscivo a stupire gli invitati. Con l'abbondanza di qui è stato uno scherzo. Non ho avuto problemi a ottenere una sovvenzione statale per aprire il ristorante. Non è stata solo la pubblicità data alla nostra fuga a procurarmi un afflusso continuo di clientela. Siamo sopravvissuti in cinquantasette passando attraverso quel tunnel e nessuno ha avuto il mio stesso successo. Questi bravi giornalisti hanno trasformato l'aiuto da me prestato a quel bambino in un salvataggio eroico. Nessuno ha badato all'assurda pretesa del dodicenne che lo avessi calpestato; l'atteggiamento di me protesa verso di lui, che Klaus ha chiaramente visto quando ci ha tirati su, era inequivocabile! Ora ho quattro commessi alle mie dipendenze e parecchio tempo libero a disposizione.

Berlino
Settembre 1999 - Sono andata a visitare la tomba di mio marito oggi. Anche lui, come me, è stato un eroe: la morte sotto il fuoco nemico durante il servizio gli ha valso una cerimonia in suo onore e una targa commemorativa. L'iscrizione però è stata tolta. Dagli archivi del regime si è scoperto che è stato colpito dal fuoco dei suoi commilitoni. La tomba dove ho fatto riporre l'urna delle sue ceneri è semplice. Coperta da rampicanti e posta vicino a delle siepi basse quasi non si vede. A fianco c'è un monumento moderno che mi piace molto: due pietre di candido marmo screziato, dalle linee pulite, si slanciano verso l'alto come due braccia per curvarsi a coppa nella stilizzazione delle mani: sembra che racchiudano un cuore aperto verso il cielo, mentre la base dei palmi trattiene una boccia di vetro sottile in cui è soffiata una farfalla, simbolo di cambiamento e instabilità.
E' l'ultima volta che verrò. Domani fuggirò di nuovo. Il crollo del muro, con l'invasione dei tedeschi dell'est, ha portato con sé incertezza anche qui in occidente. Non so più da chi guardarmi. Chi è amico e chi finge? Non lo sopporto.
Mi volto verso un bacino di pietra dove attingere l'acqua per i fiori. A pochi passi, delle tombe sono riunite da una cancellata bassa a cui sono appesi vari annaffiatoi. Nessuno li ruba; ognuno è assicurato con una grossa catena d'acciaio.

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Càrnaval

[Il titolo di questo breve racconto deriva da un pezzo pianistico di Schumann, degli inizi dell'Ottocento, formato da una serie di “quadri” di descrizione delle varie maschere.]
Tu, spettatrice distratta di questo museo. Avvicinati ai documenti. Non affrettarti con il tuo compagno per godere il lago brillante increspato dal vento.
Ascolta la musica. Ampi accordi arpeggiati in un clima fra fantasia e mistero, crome fruscianti all'arrivo della folla, l'entrata cadenzante della festa, lo squillo di tromba: è iniziato il Càrnaval!
Il travestimento delle nostre vite. Evoluzioni sconvolgenti, trilli e arpeggi in un turbine vertiginoso senza pensieri, protetti da una maschera.
I fiati esplodono in un'ampia frase melodica, sovrapponendosi l'un l'altro come in un fugato: una scaramuccia fra amanti.
Coquette.
Non giudicare. Non conosci le lacerazioni impossibili da reprimere; che non si dissolvono nel piacere fuggevole di passioni infantili.
Ogni pezzo è un meraviglioso microcosmo, nuovo e diverso da tutto ciò che l'ha preceduto.
Finché le note si inseguono ormai non più festose, oppresse dai rintocchi cupi delle campane. Le carrozze si affrettano alle dimore signorili e il volgo si disperde abbandonando resti di devastazione, muto annuncio di quello che sarebbe accaduto.
Fine Ottocento. Osannano una nuova invenzione: la scala PaoloPorta, allungabile fino a ventisei metri!
“Le devono la vita le suore del monastero Carmelino, imprigionate all'ultimo piano da un incendio.”
Non cercare i nomi: non contano per vite ostaggio della volontà altrui.
Non è cambiato granché dal Concilio di Trento, le sue persecuzioni, il Processo del Carmelino, che ha ispirato la monaca di Monza al Manzoni. Lo stesso scrittore che in una lettera a un amico riporta come Witz l'incontro con una prostituta: un vicolo scuro di notte, la meschina lo bracca e l'amplesso si consuma rapido. Allora il grande letterato osserva l'orrore: una donna sui trenta, scheletrica, i capelli radi, dischiude le labbra in un sorriso quasi senza denti, nell'attesa della ricompensa che le permetterà di sfamarsi. Manzoni maledice se stesso insultando la ragazza nella preghiera di non essersi infettato.
Anch'io mi costrinsi alla reclusione. Pasti assicurati. Per dormire, un posto privo di calore.
Fino all'incontro con l'Arlecchino del Carnevale.
Era da me la sera dell'incendio.
Non potevo permettere si sapesse.
Un colpo in testa, il suono secco del cranio spaccato, il tonfo sordo del corpo accasciato, l'assordante crepitio delle fiamme sempre più alte.
Poi la miracolosa scala alla finestra e di nuovo fra le braccia di un uomo.
Ora sono organizzata meglio.
Dio non avrebbe ingoiato fra le macerie il corpo del nobiluomo, se avesse voluto che si scoprisse la mia colpa.


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Elisa - Volontari in ospedale


Arrivano per un paio di settimane, come pratica degli studi dell'indirizzo sociale.
Non c'erano queste scuole una volta, neppure tanti vecchi.
Io sono uno di loro. Ottant'anni! Non posso credere sia trascorsa una vita.
Le infermiere leggono le schede, brevi relazioni vergate alla svelta: voti mediocri di caratteri all'apparenza piatti. Nell'invasione di adolescenti impacciati, alcuni, pochi, si appassionano, scoprendo increduli la loro vocazione. E tornano. Sempre più spesso. Se a lezione possono trovare difficoltà, figure smunte a fare da sfondo a un banco verde pallido, qui si animano, sorprendendo se stessi.
Elisa è fra questi.
Uno squillo urgente, probabile preludio di morte e la conseguente concitazione di medici e infermieri, la costrinsero ad affacciarsi alla nostra camera da sola. Lo zaino semisgonfio poggiato al petto come scudo, si sporse dentro con un cenno di saluto. Tre dei presenti approfittarono per farsi passare acqua e giornali. Elisa scattò posando la cartella di lato perché non stesse d'intralcio. Noi altri tre, quasi fossimo due fronti schierati, la ignorammo; uno addormentato, l'altro concentrato nello sforzo di alzarsi; io risoluto a uno studiato distacco. Invano. I gesti mi catturarono, la premura mi ammaliò. La volontà di tenerla lontana vacillò. Dopo un paio di visite capitolai.
Elisa aveva notato sul mio comodino un libro consunto dalla lettura, in francese.
I miei occhi erano presto stanchi nel focalizzare le cose. Per sciocca vanità non volevo si capisse e il fedele libricino di poesie mandato a memoria serviva come paravento: se mi chiedevano di leggere mi trasformavo in un magniloquente declamatore, se mi ascoltavano ero poeta io stesso.
La mattina seguente Elisa portò “Le Petit Prince”, sempre attuale per ogni età. Mi piacque come mi approcciò. “Buongiorno, sono Elisa. Potrei leggerLe questo?” aggiungendo rapida: “lo studiamo a scuola” come a intendere che fossi io a farle un piacere ascoltandola, senza far pesare la sua preziosa presenza lì.
Preziosa. Questo diventò.
Ma arroccato ottusamente dietro le barricate erette con cura contro un mondo incalzato dall'avvenire risposi, il disprezzo nella voce: “E saresti capace di leggere il francese?”
Per un orecchio fine è insopportabile che una lingua tanto melodiosa cozzi nell'inciampo di denti di uno studente svogliato.
Senza scoraggiarsi lei annuì: “Sì. Se non Le piace, ne posso prendere un altro.”
“Ma quello non è un compito per scuola?” le feci notare acido.
Arrossì, incapace di controbattere.
Avrei presto vinto la guerra, liberandomi di quella piattola lagnosa: le avrei dato il vantaggio di un capoverso prima di ingiuriarla per la goffaggine nella recitazione.
Oh, incanto! Il tono si era fatto più vellutato e profondo, le cadenze dei dialoghi una sublime armonia. La fissai: trasfigurazione di un essere sciocco e ordinario in una creatura unica. Quale imprevisto smacco! Non una semplice volontaria: un'inestimabile presenza a colmare le giornate, a dare significato alle attese. Sua madre era della Camargue ed Elisa coltivava le sfumature di entrambe le lingue. Continuò a leggere anche nei giorni seguenti. Commentavamo i brani e senza accorgermene le stavo raccontando di me. Pensavo a lei come a una modella di uno scultore, le mie parole lo scalpello per la sua anima, per plasmare la vacillante moralità, smussandone le asperità perbeniste. Le raccontavo le mie avventure, magnifica ascoltatrice avida di storie di rapine e prigioni. Sapeva tutto di me. Non mi credette mai.

Quell'anno amavo ancora di più la primavera. L'esteso parco attirava le mie energie residue. I sensi sembravano acuiti dalla fiacchezza: il vento leggero sfregava la pelle, il chiacchiericcio dei visitatori pareva un concitato ritmo rap e il profumo... Ecco: il profumo; l'intensa fragranza sollecitava prepotente le mie incursioni cinque piani più giù. L'odore, è questo il segreto. Qualsiasi tipo di essenza, non importa se spiacevole o inebriante, nel momento in cui si insinua nelle nari ti richiama al presente. La mente può cercare di divagare, ma in quell'istante la coscienza intera è costretta qui e ora. Arrivato a quel punto della vita, non volevo vivere di passato e la salute tiranna non concedeva l'illusione di un futuro. Perciò assaporavo l'adesso. Era impossibile all'interno: la struttura, inghiottita da cibi e medicinali, ti assuefaceva al suo olezzo, impedendoti di respirare, lasciandoti privo di appigli alla realtà.
Quel giardino diventò il nostro regno. Turbato a volte da indigeste figure: una ragazza leccata, i tratti del viso regolari e antipatici, in visita per costrizione, stava aggrappata, ridanciana, all'ultimo modello di palmare. Un giorno le sparì e lei, isterica e autoritaria, allertò mezzo nosocomio invadendo il mio universo interiore. Il padre, come premio per un comportamento scostante, le passò il suo Black&Berry: tanto ne avrebbe ricevuto un altro dalla ditta.
Pensai a Elisa: fiduciosa nel prossimo, lasciava spesso il cellulare incustodito. Tornando da una passeggiata le feci notare l'imprudenza. La sua empatia la spinse ad assecondare l'osservazione di un vecchio, ma come previsto il telefono sparì. Lo cercammo a lungo, ore trascorse insieme in una piccola indagine fra pazienti, visitatori e personale. Tutti avevano notato qualcuno di sospetto: descrizioni balorde da non cavarne nulla! Era disperata: tutti i recapiti perduti e se i suoi l'avessero saputo...
Mancava poco al suo compleanno. La spinsi a immaginare un nuovo cellulare: sicuramente voleva un touchscreen e con certe funzioni... avevo proprio quello che le serviva! La sorpresa che ebbe quando le consegnai il pacco! Il rossore alle guance, la parola mozzata a metà. Pregavo, io senza dio, che la sua gioia potesse essere paragonabile a quanto lei mi aveva donato in quei mesi.
Non sarei più uscito da lì, lo sapevo. I riflessi sempre più lenti, la vista che peggiorava. Due giorni dopo, l'attacco. Mi riportarono in vita tirandomi per i capelli. Costretto a letto, osservavo le sue occhiaie preoccupate. Allungai la mano, troppo debole per essere notato, il tocco leggero da non essere sentito.
Anche con la leccata il movimento era stato lieve, anche se non più rapido come una volta. Ma nessuno fa caso a un ottantenne. Conoscevo il modo di resettare il telefonino perché non rimanesse traccia di file precedenti. Il mio ultimo colpo è stato da maestro. Ladro sì, ma gentiluomo.
Così ora mi spengo con Elisa che mi veglia, lo sforzo di un sorriso contratto da un pianto trattenuto, mentre rigira tra le mani un ricordo di me.

3 comments:

  1. bello, scritto bene e con diverse frasi che mi hanno colpito, tipo questa:

    Commentavamo i brani e senza accorgermene le stavo raccontando di me. Pensavo a lei come a una modella di uno scultore, le mie parole lo scalpello per la sua anima, per plasmare la vacillante moralità, smussandone le asperità perbeniste. Le raccontavo le mie avventure, magnifica ascoltatrice avida di storie di rapine e prigioni. Sapeva tutto di me. Non mi credette mai.

    Hai uno stile intenso senza ricorrere ad effetti speciali..
    GD

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    1. ma sei ovunque GD :) anche dalla Graziella....che ancora non son riuscito a portare in svolgimento eh eh eh
      Meis

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  2. Grazie, grazie! Continua a seguirmi... e a farmi i complim... ehm a sostenermi ;-)

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